Nadar, sensibilità e stati d’animo

 Se con il formato non superiore agli 8×8 cm le lastre al collodio riuscivano a fermare il movimento, con quelle appena più grandi si cadeva nell’effetto mosso, che talvolta in alcuni ritratti risultava affascinante. Meraviglioso è infatti il ritratto di Baudelaire, ripreso da Nadar intorno al 1854, in cui il poeta è avvolto da una suggestiva evanescenza. Nella storia della fotografia quest’effetto è stato spesso voluto in una tecnica però assai diversa, operata ad esempio da Julia Margaret Cameron, autrice di cui abbiamo gia parlato, la quale faceva abitualmente uso del ‘fuoco morbido’.

Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon (Parigi, 1820-1910), è stato un importante fotografo francese. A partire dal 1854 Nadar iniziò a dedicarsi alla sua prima opera fotografica significativa, il Panthéon Nadar, un’imponente galleria di foto dove passò in rassegna le maggiori personalità del tempo, come Charles Baudelaire, Eduard Manet. Nel 1860 Nadar aveva ormai acquisito notorietà nazionale, non solo per la titanica impresa del Panthéon, ma anche grazie alle altre iniziative delle quali fu protagonista. Nel 1858, per esempio, solcò con una mongolfiera i cieli di Parigi, e in questo modo poté sperimentare le potenzialità della fotografia aerea.

Nadar fu fra i primi a cogliere le straordinarie potenzialità della neonata arte fotografica e a favorirne lo sviluppo, diventandone così in breve tempo uno degli interpreti più sensibili e autorevoli. Il campo nel quale raggiunse i risultati più significativi fu la ritrattistica, dove si distinse per le sue abilità compositive e per la compenetrazione psicologica con la quale si rapportava al soggetto, doti che lo equiparavano del tutto a un buon pittore. Nadar, infatti, sapeva valutare e gestire il contesto nel quale si andava a scattare la foto, predisponendo con grande abilità la luce ambientale (sia questa naturale e artificiale) e il modo con cui essa interagiva con i volumi. Nadar, inoltre, si relazionava con i suoi soggetti con grande sensibilità: amava parlare con loro, così da farli sentire a proprio agio e da cogliere con maggiore facilità i loro stati d’animo. Aveva una cura maniacale per i dettagli, e predisponeva vari accorgimenti mirati a far emergere l’interiorità più profonda della figura ritratta, descrivendo in modo sintetico e non analitico la loro personalità e le loro peculiarità. La poetica di Nadar è particolarmente evidente nel ritratto di Sarah Bernhardt, una delle più grandi attrici teatrali del XIX secolo. Per usare le parole di Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, «la neutralità dello sfondo, la sapiente sfumatura dei chiaroscuri, l’armoniosità tutt’altro che casuale del panneggio, la posa dolce e pensierosa (appoggiata a un finto rocchio di colonna classica) danno al personaggio un’espressività straordinariamente intensa e malinconica»

« Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare »

Nadar

Le donne di Flora Borsi

“Non mi piace la realtà; voglio fingere! La fotografia è il mezzo perfetto per me esprimere i miei sentimenti e creo le mie visioni “

Tra le artiste donne talentuose, che usano la fotografia come mezzo di ricerca e di comunicazione, troviamo Flora Borsi. Artista ungherese che attraverso la fotografia e la sua successiva manipolazione da libero sfogo alle proprie sensazioni. L’istinto primordiale che la ispira è la volontà di espressione di concetti attraverso il sogno. Il suo scopo è quello di esaltare le diversità e le fragilità attraverso immagini forti e dirompenti.

Le prime opere di fotografia erano collage, in seguito si dedica alla creazione di fan art di musicisti che amava. Quello che era iniziato come un hobby ha generato sempre di più un forte bisogno di comunicare. Con la sua passione per i ritratti,  e il suo abbondante uso di textures e colori, il suo lavoro unisce moltissimi elementi tipicamente femminili. Le donne sono mostrate in un complesso mosaico: forti e senza paura, vulnerabili, trasformate in mostri o intrappolate.

Mescolando fotografia e pittura, la fotografa Flora Borsi ha creato Iréel, una serie di ritratti sensuali e istintivi, compiuti attraverso un pannello di vetro sul quale applica delle pennellate di colore, creando un effetto che sembra coprire e scoprire, evidenziando un contrasto nel significato e allo stesso tempo una fusione tra le due tecniche.

 

Mario De Biasi, voglia di rinascita

Mario De Biasi nasce a Sois, nei pressi di Belluno, nel 1923; dopo avervi trascorso l’intera giovinezza si trasferisce a Milano. Il suo legame con la fotografia nasce tra le macerie di Norimberga nel 1944, tra quelle pietre, simbolo del dramma che stava dilaniando l’Europa, trova una macchina fotografica, il segno di un destino che avrebbe cambiato la sua vita. Ha quindi iniziato la propria carriera in veste di fotoreporter con la rivista Epoca, nel 1953, effettuando reportages in diversi paesi. Tra questi, quello sulla rivolta d’Ungheria del 1956, il terremoto in Sicilia, l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, la New York degli anni cinquanta e  i ritratti come quelli di Marlene Dietrich, Brigitte Bardot e Sophia Loren.

Con il suo obiettivo indaga e descrive in modo vivo gli aspetti più curiosi e interessanti di una società ancora sostanzialmente integra nei costumi e nelle tradizioni, cogliendone però anche i primi segnali di cambiamento. In oltre cinquant’anni di attività ha fotografato tutti i principali avvenimenti nazionali e internazionali; con le sue immagini sono stati illustrati articoli, fototesti, numeri speciali di riviste e oltre 85 libri, che si aggiungono alle innumerevoli mostre personali e collettive.

Una delle sue foto più celebri è l’immagine simbolo di una mostra storica del 1994, curata da Germano Celant al Guggenheim di New York. Si trattava di «The Italian Metamorphosis, 1943-1968»: il manifesto ufficiale della manifestazione era l’immagine di spalle di una prosperosa e sconosciuta Moira Orfei sotto lo sguardo carico di desiderio di un gruppo di ragazzi. Il titolo aveva un carattere identitario: «Gli italiani si voltano», ma benché la foto fosse dichiaratamente costruita, raccontava perfettamente l’Italia di quella stagione con tanta voglia di rinascita.

Mario De Biasi, se n’è andato il 27 maggio 2013, nella sua amata Milano.

The italians turn, Milan 1954

William Eggleston, un’attenzione per il banale

Fino alla fine degli anni sessanta, la fotografia a colori era usata in particolare nella pubblicità, mentre nell’ ambito artistico  era poco apprezzata da critici e fotografi. Così è stato almeno fino all’ arrivo di William Eggleston (Memphis, 27 luglio 1939), uno dei più importanti artisti contemporanei ed è inoltre, uno dei pionieri della fotografia a colori. Cominciò ad avvicinarsi a quest’arte nel 1950, infatti è proprio in questo periodo che acquistò la sua prima Leica iniziando a  sperimentare la fotografia a colori. Fondamentali sono gli artisti che lo hanno guidato ed appassionato: Walker Evans e Henry Cartier-Bresson. Eggleston ha nobilitato il colore servendosi di un processo di stampa chiamato dye transfer. La tecnica è stata brevettata dalla Kodak negli anni quaranta e già allora era considerata molto costosa. Nel dye transfer i negativi di partenza sono in bianco e nero, e sono stampati in tricromia, attraverso appositi filtri che sviluppano un’ampia gamma di rossi, blu e gialli. Eggleston l’ha scoperta viaggiando negli Stati Uniti, per la precisione in un piccolo laboratorio di Chicago. Con il dye transfer si ottiene una profondità quasi materica delle immagini e una straordinaria intensità dei colori.

William Eggleston5William EgglestonWilliam Eggleston6

Fu dunque tra i primi a sdoganare questo tipo di fotografia, che fino dall’ inizio degli anni ’70 era considerata esteticamente poco rilevante, e scioccò il mondo dell’arte con una memorabile esposizione al Museum of Modern Art di New York nel 1976. Essere un pioniere però non è stato facile, la sua mostra era stata demolita dai critici, che lo avevano accusato di volgarità per il suo uso di colori ‘pacchiani’. Il New York Times la aveva definita “la peggiore mostra dell’anno”. Il tempo, però, ha dato ragione a Eggleston. Rifiutando le tradizionali gerarchie dell’arte visuale William Eggleston considera che qualunque oggetto è degno di interesse. Il suo “occhio democratico” lo invita a fotografare tutto ciò che ci è familiare ma in una maniera totalmente inconsueta. Le sue fotografie sono cosi’ : apparentemente banali, una semplice registrazione a colori di cio’ che lo circonda. Ma luce, composizione e colori seguono un disegno preciso.

Anders Petersen, persone unite dal filo dei sentimenti

“Chi sono io? La risposta a queste domanda non è molto importante, perché la domanda stessa è più interessante di qualsiasi risposta. Vorrei saperne di più di me stesso e degli altri, dei sogni, degli incubi,  le ferite e  i ricordi che ci assillano. La fotografia è una sorta di filosofia che riesco a trovare dentro di me. Non è una religione, anche se suona come se lo fosse. La fotografia è incontrare le persone in un viaggio per capire me stesso”.

 

Anders Petersen (3 maggio 1944) è un fotografo svedese. È noto in particolare per i suoi lavori molto intimi e personali in bianco e nero, il suo lavoro è ossessionato dall’essere umano nella sua forma, dall’ enigma che lo accompagna e dalla solitudine e la profondità dei sentimenti che lo caratterizzano. Le sue immagini sono spesso avvolte da una sorta di tristezza poetica, dove la morte appare sempre presente, pronta a sbucare e farsi largo per prendere il sopravvento della scena. Per tre anni dal 1967 al 1969 ha documentato gli abituali frequentatori notturni, tra cui prostitute, travestiti, alcolizzati, amanti e tossicodipendenti del Café Lehmitz, in Germania. Nel 1978 le fotografie sono state pubblicate da un libro edito dalla tedesca Schirmer/Mosel. Café Lehmitz è da allora considerato un libro seminale nella storia della fotografia europea, così come Petersen che viene riconosciuto per la sua capacità di trovare un linguaggio comune con perfetti sconosciuti; redige un ritratto commovente di un’umanità alla deriva attraverso l’intensità di sentimenti sommersi nei volti delle persone.

Io so che per fare buone foto è necessaria la giusta distanza, devo avere un piede dentro e un piede fuori, il mio problema è che, alla fine, ho sempre due piedi dentro!“.

 

Petersen prosegue la sua indagine nei carceri, nei manicomi e nelle case per anziani e per un lungo periodo, vive proprio in una prigione di massima sicurezza per fare le fotografie del libro Fangelse (1984).   Il suo lavoro, spesso rappresentato in maniera cruda e dura, ma sempre avvolto nella sua poetica,  ci costringe a riflettere su situazioni e persone che la maggior parte di noi di evita a priori per paura o fastidio, focalizzandosi  sulla tenerezza, la bellezza e l’umanità comune che ci contraddistingue.

Vi consiglio di dare uno sguardo al sito dell’artista per avere una visione completa delle sue opere.

http://www.anderspetersen.se/

Fenton, un grande pioniere

La storia della fotografia prende le distanze dal vero essendo ricca di pittoresco e di finzione; molto di questo pittoresco è stato prodotto negli studi fotografici, in quella che fu la finta istantaneità. Un esempio chiarissimo lo abbiamo con alcune immagini di Roger Fenton. Studiò pittura a Parigi dove conobbe il fotografo Gustave Le Grey che collaborava anch’egli con Delaroche. Di ritorno in Inghilterra decise di perfezionarsi nella fotografia. Fondò nel 1853 la Royal Photographic Society e nel 1854 cominciò a fare fotoritratti per la famiglia reale.

Nel 1855 fotografò la guerra di Crimea; il conflitto coinvolgeva da una parte la Russia e dall’altra la Turchia, la Francia, l’Inghilterra, e il regno non ancora italiano dei Savoia. Di fronte a questa situazione, per far fronte al malcontento popolare, la casa reale inglese promosse una spedizione fotografica, affidandola proprio a Fenton, che partì con un’attrezzatura che escludeva l’istantaneità, ragion per cui il soggetto doveva necessariamente collaborare con il fotografo rispettando i tempi di posa. In missione ufficiale, non fotografò che gli aspetti accettabili della guerra, quindi non soldati morti , né feriti o malati, bensì riprese generali che preparavano piani di battaglia, ufficiali e soldati che sonnecchiano. Fenton ha volontariamente fotografato la guerra con l’intento di difendere la politica del suo paese, e pertanto non ha mostrato gli aspetti più atroci. È anche evidente che tenuto conto del materiale utilizzato, il pesante mezzo fotografico, le lastre di vetro, ecc. non potesse lavorare che prima o dopo i combattimenti, e fuori della portata del nemico.

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Il fotografo affrontò in seguito degli studi di genere basati su una visione romantica della vita nel mondo dell’Islam, realizzando una serie di immagini orientali, tutte inscenate fra le pareti dello studio di Londra, come ad esempio la famosa Odalisca seduta. Nel 1862 abbandonò la professione di fotografo, vendendo la propria attrezzatura. Morì a Londra nel 1869.

 

Fu in seguito riconosciuto dagli storici dell’arte come un grande pioniere della storia della fotografia.

Chissà cosa ne sarebbe stato del Rinascimento se le dame avessero bevuto Coca-Cola?

Ogni giorno davanti ai nostri occhi vediamo un susseguirsi di immagini che tendiamo ad assorbire passivamente; ma c’è una cosa che sicuramente magnetizza lo sguardo, ed è quello in cui Romina Ressia, fotografa argentina, ha incentrato tutto il suo lavoro da fotografa, l’elemento contrastante. Le sue fonti di ispirazione, come potrete ben intuire dallo stile pittorico delle sue immagini, sono i grandi maestri dell’arte come Da Vinci, Rembrandt, Velazquez, e con forti influenze di artisti contemporanei come Cindy Sherman, Martin Parr, Maurizio Cattelan e Marina Abramovič.

Quello che Romina vuole investigare con la sua arte è semplice quanto brillante: How would have been? Chissà cosa ne sarebbe stato del Rinascimento se le dame avessero bevuto Coca-Cola? Da qui nasce una serie di scatti che hanno come protagoniste delle improbabili dame rinascimentali che masticano chewing gum, portano l’apparecchio ai denti, o mangiano dello zucchero filato. Gli abiti e le acconciature sono rigorosissime, così come le pose e le luci, in pieno stile pittoresco del Cinquecento, ma alcuni evidenti dettagli solleticano l’osservatore riportandolo immediatamente ai giorni nostri.

Dare una volto nuovo alle cose attraverso l’arte è una prerogativa del lavoro di Romina, in quanto abitiamo un contesto sociale in cui soffermarsi su un’opera d’arte non è più tanto consueto. Dedichiamo ormai solo qualche secondo del nostro tempo a guardare creazioni che sono frutto di lavori lunghissimi. Proprio in questa chiave, Romina Ressia realizza delle fotografie che hanno questa forza ammaliatrice che inchioda l’attenzione e lo sguardo di chi osserva, grazie al loro contrastante linguaggio.

Sebastião Salgado, fotografo umanista

Sebastião Salgado nasce ad Aimorés, in Brasile, l’8 febbraio 1944. Fotoreporter umanista, che è stato più volte nominato fotografo dell’anno. Dopo una formazione da economista e dopo aver fatto parte di una missione in Africa, decide di intraprendere la carriera da fotografo, realizzando nel 1973 un reportage sulla siccità del Sahel e sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Entra nell’agenzia Sygma, documenta la rivoluzione in Portogallo e la guerra in Mozambico. L’ingresso nell’agenzia Magnum nel 1979 segna ancora di più il suo percorso, realizza reportage fotografici che denunciano sempre più il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, esaltando nelle sue fotografie la dignità di un’umanità sofferente. Nel 1994 fonda, insieme a sua moglie Lelia Wanick Salgado, una struttura completamente dedicata al suo lavoro e ai suoi scopi documentativi e sociali, Amazonas Images,  dove si occupa soprattutto di reportage di impianto umanitario, impiegando anni ad affrontare tematiche di ampio respiro.

Salgado intraprese lunghi viaggi, raccontati in volume pubblicato nel 1986, con il titolo di “Autres Ameriques”, che raccoglie moltissime fotografie frutto dei numerosi viaggi compiuti in America Latina, tra il 1977 e il 1984: un susseguirsi di immagini racconta con grande forza la persistenza delle culture contadine e indiane in quelle terre. L’intensità delle fotografie in bianco e nero, il loro impatto emotivo, tutto impaginato da Lélia Wanick Salgado. Il libro ha ricevuto il Premier Livre Photo, ed è stato un grande avvenimento editoriale. Durante gli anni successivi Salgado concepisce e realizza un progetto sul lavoro nei settori della produzione. Il risultato è la pubblicazione di un progetto intitolato La mano dell’uomo, uscita nel 1993 e tradotta in sette lingue, accompagnata da una mostra presentata in oltre sessanta musei di tutto il mondo.

 

The Outskirts of Guatemala City, Guatemala,  1978

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I suoi scatti, dunque, attirano l’attenzione su tematiche importanti e molto toccanti, come la povertà e gli effetti distruttivi dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo. Un’altra delle sue raccolte incentrata su questa tematica è ambientata nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, dove migliaia di persone, giunte da tutto il mondo, sono ritratte mentre si arrampicano fuori da un’enorme cava su scale a pioli, costretti in un certo senso dalla loro povertà, a caricare sacchi di fango che potrebbero contenere tracce del metallo.

All’inizio della realizzazione del progetto Genesis, Salgado voleva ottenere il massimo dalle sue immagini, ma con le misure di sicurezza instaurate negli aeroporti di tutto il mondo, in conseguenza degli attentati nel 2001, le pellicole avrebbero dovuto attraversare varie volte i raggi X, che avrebbero fatto perdere qualità alle pellicole stesse e quindi al vantaggio qualitativo che avrebbe dovuto derivarne; per cui il fotografo ha deciso di utilizzare una Canon 1Ds Mark III, riducendo il peso previsto del materiale sensibile con schede digitali. La mostra che ne è risultata, Genesi, è stata esposta in varie città del mondo, fra cui, per l’Italia, Roma, Napoli, Milano, Forlì e Genova.

Letizia Battaglia, una vita da fotografa

Letizia Battaglia nasce a Palermo il 5 marzo 1935. Comincia la sua carriera verso la fine degli anni Sessanta collaborando con varie testate giornalistiche. Si trasferisce anche a Milano dove comincia la sua attività da fotoreporter. Ben presto matura la voglia di raccontare, documentare i drammi della mafia della sua Palermo dove torna nel 1974 e crea, con Franco Zecchin, l’agenzia “Informazione fotografica”, frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Di fatto, in quell’anno si trova a documentare l’inizio degli anni di piombo della sua città, scattando foto dei delitti di mafia per comunicare alle coscienze la misura di tale atrocità; diviene presto una fotografa di fama internazionale grazie soprattutto al suo impegno sociale e alla sua forza sostenendo ideali di libertà e giustizia.

Ma Letizia Battaglia non fotografa solo la mafia, le sue foto, spesso di un nitido bianco e nero, raccontano soprattutto Palermo nelle sue tradizioni, nella sua miseria e troviamo sguardi di donne e bambini, i quartieri, le feste e la vita quotidiana. Negli anni ’80 crea il “laboratorio d’If”, dove si formano fotografi e fotoreporter palermitani.

La foto più emozionante l’ ha paradossalmente scattata con gli occhi, e la porta con sè nell’ archivio della mente, racconta: «Avevo poco più di sedici anni. Era il 1951. I grandi occhioni azzurri di cinesina – tra le mie braccia un piccolo miracolo di persona, uscito da me, dal mio corpo – Cinzia. Da amare, da curare, da nutrire. Nessuno ha scattato questa foto. Ma è questa l’ immagine che ho in testa. In bianco e in nero. Io e lei». Varcata la soglia dei 75 anni tira le somme della sua vita raccontandosi nella biografia “Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni” curata da Giovanna Calvenzi. Parlano di lei, attraverso flash che si inseriscono nella narrazione, gli amici di una vita, Giuseppe Di Piazza, Santi Caleca, Simona Mafai, Leoluca Orlando, Roberto Roveri, Giovanni Sollima, Franco Zecchin e altri. Una vita piena di ostacoli, ma che affronta con il coraggio e l’ incoscienza di chi si ribella a un mondo ingiusto. Un mondo in cui la donna è costretta a vivere sotto l’uomo: prima il padre e poi il marito. Si sposa alla giovane età di 16 anni per imposizione della famiglia. «Il 22 novembre del 1951 mi sposai con Franco Stagnitta, un bel ragazzo di 22 anni, benestante. Pensavo che avrei potuto continuare ad andare a scuola, che avrei potuto scrivere. Mio marito siciliano, invece era molto spaventato dalla ragazza vivace che aveva accanto, e mi chiuse tutte le possibilità». Letizia sogna, sa che la sua strada è altrove, cerca disperatamente di sottrarsi a quella vita. E scappa. Fugge a Milano con le tre figlie e un nuovo amore, Santi Caleca, che poi le avrebbe donato la passione per la fotografia.

 

Letizia Battaglia ha esposto le sue fotografia in molti paesi, Italia, Francia, Gran Bretagna, America, Canada, Brasile, Svizzera; è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985 il Premio Eugene Smith a New York, riconoscimento internazionale istituito in memoria del fotografo di Life. Un altro premio, il Mother Johnson Achievement for Life, le è stato tributato nel 1999.

Julia Margaret Cameron, un ‘morbido’ talento

Julia Margaret Cameron nacque l’11 giugno 1815 a Calcutta, allora appartenente all’India britannica.  Visse in Francia sino al 1838, quando tornò in India per sposare Charles Hay Cameron. Si trasferì a Londra nel 1848 quando il marito si ritirò dagli affari. La sua carriera di fotografa iniziò tardi, quando la figlia le regalò una macchina fotografica per il suo 48° compleanno. Si appassionò immediatamente a quell’attività che considerava come catturare la bellezza, praticando principalmente il ritratto e la rappresentazione allegorica di racconti e romanzi, diventando anche membro delle Società fotografica di Londra e di Scozia meno di un anno dopo. Ricordiamo in particolare che su  richiesta del poeta Alfred Lord Tennyson, Cameron illustrò il suo componimento “Idilli del Re” (Idylls the King) utilizzando personaggi in costume. Sviluppò una tecnica a luce soffusa che incorporavano l’atmosfera sognante dell’epoca vittoriana, il famoso “fuoco morbido”, ovvero un leggero fuori fuoco attraverso il quale ha realizzato meravigliosi ritratti di bambini e di donne immerse nella natura.

 

I suoi amici e la famiglia sostenevano la sua nuova ossessione, anche se alcuni altri fotografi prendevano in giro il suo stile non convenzionale e alternativo. Avrebbe spesso fatto sedere i suoi soggetti per lunghi periodi di tempo, mentre lei rivestiva, esponeva e trattava ogni lastra bagnata in modo da assicurarsi di ottenere la foto che desiderava. Era estremamente entusiasta, cosa che rendeva i suoi figli e gli altri, in alcuni momenti, stanchi dei suoi continui scatti fotografici, ma nonostante tutto divenne una tra i fotografi amatoriali più prolifici e di talento del suo tempo, possedendo un delicato gusto artistico e un senso estetico che la impressero nella storia della fotografia come una delle maggiori esponenti del pittorialismo.

 

Tra i personaggi che passarono per l’obiettivo di Julia Margaret Cameron ci sono Charles Darwin, Alfred Lord Tennyson, Robert Browning, John Everett Millais, William Michael Rossetti, Edward Burne-Jones, Ellen Terry e George Frederic Watts. Inoltre altri soggetti rappresentati erano spesso membri della sua famiglia, le figlie in particolare, ma anche la servitù e altri parenti; fra le modelle preferite c’era la nipote Julia, che diventerà la madre di Virginia Woolf.